Il libro, in lingua italiana, esplora i confini tra deontologia, modelli organizzativi, mentalità professionale degli avvocati italiani e approccio strategico alla organizzazione dello studio e al marketing.
Primo libro su questo argomento uscito sul mercato italiano per i tipi de Il Sole 24 Ore, è stato scritto da Paola Parigi con il contributo del giornalista e blogger Stefano Martello, nel 2005.
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Leggi la prefazione di Remo Danovi
Leggi l’introduzione
La professione forense è profondamente cambiata negli ultimi dieci/quindici anni.
A fronte di questa banale osservazione, che probabilmente tutti gli avvocati oggi sottoscriverebbero, dispiace constatare che non sono cambiate con pari velocità le norme che la regolano, né i percorsi formativi per l’accesso, la specializzazione o l’aggiornamento, né tanto meno i meccanismi organizzativi o le tutele del lavoro.
L’analisi dei fenomeni che hanno contribuito a questo cambiamento, anche se sintetica, ha lo scopo di chiarire perché oggi si può, o meglio, si deve, parlare di management e di marketing per gli avvocati e per gli studi legali.
La speranza di chi scrive è quella di contribuire alla nascita di una teoria generale sul marketing forense di modello italiano, che al momento non esiste. Per quanto possibile, si desidera partecipare al dibattito in corso su questi temi e avanzare proposte operative che possano portare alla costruzione di un nuovo e più efficiente metodo di lavoro.
Lo scontro tra vecchie e nuove modalità, non è solo generazionale, ma ben più articolato. Da molti anni si dibatte sul riordino delle norme in materia e sulla necessità di una profonda riforma delle professioni liberali[1].
I mutamenti che hanno interessato le diverse categorie negli ultimi tempi non hanno portato a risultati omogenei e ciò che è divenuto realtà per gli ingegneri, gli architetti, i medici, i commercialisti, non è, in tutto o in parte, vero per gli avvocati[2].
Dalla evoluzione della formazione universitaria e post universitaria, alla possibilità di accedere alla professione e di esercitarla secondo varie forme, alla costituzione di società professionali, l’avvocatura sconta una difficoltà di modernizzazione che non rende giustizia alla nobiltà del ruolo della professione che è quello di dar voce al cittadino nell’esercizio privato dei diritti e nella sua difesa e rappresentanza in giudizio.
Lo stesso dibattito con il legislatore su questi temi resta relegato alla cerchia delle istituzioni e associazioni di categoria ed esclude una larga parte degli interessati, che non si sente sempre efficacemente rappresentata da organi dai quali percepisce una incolmabile distanza.
La modernizzazione è una priorità ed i problemi ad essa legati vanno prioritariamente affrontati e risolti, da ciascuno nel proprio quotidiano, nell’operosa attesa che il cambiamento venga recepito anche a livello normativo e regolamentare e, prima ancora, culturale.
L’utilizzo dell’informatica, della telematica e di Internet, le relazioni con la stampa, la comunicazione, il marketing e la pubblicità, sono strumenti datati per qualunque altra categoria professionale che, prima dell’avvocato, abbia dovuto confrontarsi con il libero mercato.
L’avvocatura, nella maggioranza, sembra considerarli solo giochi (pericolosi) per i più giovani o, peggio ancora, argomenti ineleganti, inopportunamente tangenti la visione imprenditoriale della professione, come tali totalmente da stigmatizzare.
Nella presentazione di un interessante volume che verrà più volte citato in questo testo[3], Giuseppe Tesauro[4] rende chiaramente conto dell’impopolarità di questi argomenti: «Meno indolore, almeno sotto il profilo psicologico, è il tema del rapporto tra professione forense e libera concorrenza, tradizionalmente considerato un rapporto impossibile. Ben radicata è infatti l’idea che la nobiltà della professione legale non possa in alcun modo coniugarsi con la nozione di impresa, che pure è il presupposto indispensabile dell’applicabilità delle norme a tutela della concorrenza».
Stile, eleganza e decoro sono gli impalpabili limiti della comunicazione informativa, l’unica forma di pubblicità consentita all’avvocato dall’art. 17 del codice deontologico forense[5].
I tecnici di gestione delle imprese considerano la pubblicità come l’ultima ratio del marketing; il servizi forniti da uno studio legale mal si adatterebbero alla promozione nella forma utilizzata per i prodotti di grande distribuzione, questo è innegabile, ma il merito della novella è innanzitutto quello di aver affrontato una realtà dei fatti nei confronti della quale buona parte dell’avvocatura continua a guardare con colpevole miopia e malcelato imbarazzo.
La ragione dell’antipatia per parole come business planning, controllo di gestione, management e soprattutto concorrenza e marketing, non sta nell’abuso degli inglesismi, ma nella totale estraneità di questi e di molti altri concetti di gestione aziendale alla formazione del giurista[6].
Quando il laureato in legge affronta la sua scelta professionale, sia che scelga la magistratura, si rivolga ad un’azienda, o preferisca la libera professione forense o notarile, sconta la vetustà della sua formazione e l’assenza di alcuna preparazione su tematiche anche vagamente imprenditoriali, per non parlare dell’uso delle lingue straniere e della telematica. Così si legge in una ricerca commissionata dalla Cassa Nazionale di Previdenza Forense al Censis, sull’evoluzione dell’avvocatura[7].
«La preparazione fornita durante il corso di studi universitari è ritenuta dal 75% delle aziende che assumono laureati in legge “troppo teorica e troppo distante dalle esigenze aziendali. Questo vale tanto per i laureati assunti (…) quanto per i professionisti esterni».
L’aspra critica sulla formazione fornita dall’università è condivisa dagli studenti e dai laureati: il 70% circa dei giovani intervistati dal Censis ha preferito la libera professione perché ne apprezza la dinamicità e l’autonomia nella determinazione dei tempi di lavoro, ma ritiene particolarmente faticoso il rapporto con il cliente.
«Questo elemento lascia pensare che i giovani si siano dovuti confrontare con modalità di esercizio della professione molto più competitive di quanto si aspettassero e che, d’altra parte, la domanda di servizi legali sia molto attenta agli esiti della prestazione fornita e più in grado rispetto al passato di giudicarne la qualità complessiva»[8].
A causa della scarsa flessibilità del modello normativo al quale appartiene, l’avvocato italiano, è costretto in una sagoma rigida che lo allontana dal libero mercato e dal mondo dell’impresa, che lo lega ad un sistema di vincoli pubblicistici, in buona parte gestiti dalla propria stessa categoria, con l’intento di mitigare la concorrenza.
Il risultato ottenuto da questo sistema vincolistico è che la professione continua a caratterizzarsi per la sua dimensione individuale, generalista, più vicina all’impresa artigiana che allo studio di consulenza terziaria avanzata cui legittimamente appartiene per il contenuto delle prestazioni erogate.
Lo studio legale ha necessità di impadronirsi di alcuni fondamenti di economia, e di logiche connaturate al mercato del lavoro e dei servizi. Ne ha bisogno per esercitare un efficiente di controllo di gestione sulla propria attività e per calcolare i costi effettivi di esercizio, quelli nascosti e quelli non recuperabili, così da elaborare pianificazioni e politiche di prezzo, ed attivare strategie sensibili in tema di gestione della conoscenza e delle risorse umane.
Adattare le proprie capacità e le legittime aspettative di successo, agli scenari che cambiano è l’obiettivo da raggiungere.
Lungi dal diventare venditori di diritto[9], anche per gli avvocati è tempo di confrontarsi con le aspettative di clienti sempre meno fidelizzati e sempre più esigenti, di anticiparle e di rendere conto della propria capacità di soddisfarle.
Una teorizzazione dell’organizzazione dello studio legale e del marketing possibile per l’avvocato, debbono partire dal disegno preciso di una mappa del mercato in cui avvocati e studi legali si muovono.
E’ impossibile avanzare nel disegno senza sciogliere il nodo sulla reale conformazione dell’ambiente interno ed esterno agli studi, e senza riflettere sulle problematiche già esplose e su quelle che presto esploderanno.
Tenendo conto anche degli attuali limiti della legislazione in tema di associazione professionale e società tra professionisti e del vuoto legislativo che si è creato dal 1997 al 2001[10], solo parzialmente colmato dalla istituzione della società tra avvocati,
vanno analizzati senza pregiudizi i problemi posti dalla mentalità prevalente e dalla legislazione vigente, cercando di chiarirne il quadro, per affrontare il rischio che il vuoto legislativo resti tale, o, peggio, che esso si deteriori in un labirinto senza uscita, se la categoria non prenderà reale coscienza di sé.
[1] Al momento in cui questo testo è andato in stampa, il progetto di riforma delle professioni denominato Vietti bis, poi riformulato dal Ministro della Giustizia, veniva fatto oggetto di discussione con i rappresentanti del mondo professionale. La categoria forense, a fronte della promessa di integrazione del testo su temi come il potere giurisdizionale degli ordini e questioni legate alle imposizioni fiscali sulla previdenza, ha espresso pareri favorevoli. L’organico progetto di riforma, rimasto chimera per un quarantennio, sembra tuttavia non incontrare il favore del mondo delle professioni “non protette”, ma soprattutto si mostra lontano dai principi di liberalizzazione del mercato forense proposto a livello Europeo.
[2] Ci si riferisce ad esempio alla possibilità di costituire società miste interprofessionali o di capitali, facoltà concessa alle società di ingegneria sin dagli anni ‘80, od alla istituzione di scuole di specializzazione e dei crediti formativi per la formazione permanente, previste per medici e commercialisti. A parte l’istituzione della formazione permanente che è stata recepita nel progetto di riforma, nessuna modifica è stata apportata alla società tra avvocati, né sull’ipotesi di ingresso di capitale esterno, né sulla facoltà, per gli avvocati, di costituire società multiprofessionali, consentita ad altre categorie.
[3] A. Berlinguer Professione forense, impresa e concorrenza, Milano, 2003, pag.VI.”
[4] Al momento dell’andata in stampa di questo libro, Garante per l’Autorità per la libera concorrenza e il mercato, in attesa di essere sostituito.
[5] La formulazione del codice deontologico forense è stata modificata nel 17/4/1997 per merito del padre della deontologia forense italiana, l’avv. Remo Danovi, già presidente del Consiglio Nazionale Forense nel senso di un ampliamento della libertà di pubblicità nella forma della comunicazione informativa, prima assolutamente vietata. Vedi infra par. 3….
[6] L’ignoranza del concetto è il fondamentale ostacolo alla creazione di un corrispondente linguistico. Su questo interessantissimo tema, che attiene agli studi di semantica e linguistica, sarebbe interessante soffermarsi, ad esempio, con una riflessione sulla cacofonia della parola “avvocatessa” riferita al professionista di sesso femminile, cui è impossibile, in Italia, sostituire il termine “avvocata” poiché legata ad una prerogativa della Madonna, advocata Dei, chiamata a Dio per un compito superiore.
Su argomenti affini diverte la lettura, agile anche per i non addetti ai lavori di: Tullio De Mauro, Prima lezione sul linguaggio, Bari, 2002.
[7] Censis, L’evoluzione dell’avvocatura fra logica professionale e orientamento al mercato, Roma, 1997.
[8] Censis, cit. La ricerca è citata anche da G. Fregni e L. Marliéré in Marketing per gli studi legali, Utet, 2003, p.3. Gli Autori, forti dell’esperienza dell’appartenenza ad un GEIE tra avvocati europei, sono stati i primi a svolgere in Italia un compiuto esame della materia. Chi scrive ha seguito e segue lo stimato lavoro degli amici e colleghi.
[9] Come temono alcuni esimi esponenti dell’avvocatura; cfr: Natalino Irti, Se il sapere giuridico diventa una £derrata commestibile, Il Corriere della sera, 2 luglio 2004; Guido Alpa, Sul progetto della Commissione pesano troppi errori e pregiudizi, Il Sole 24 ore, 14 febbraio 2004.
[10] Prendendo come inizio l’abolizione dell’art.1 della legge 185/1939 a cura della Legge Bersani e come fine il D. l, 96 del 2/2/2001 di recepimento della direttiva 98/5 CE sulla libera circolazione degli avvocati nell’Unione Europea e istitutivo della società tra avvocati.
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